
Il 60% delle aziende mondiali riferisce che l’implementazione dell’intelligenza artificiale si è tradotta in un aumento dei ricavi e della redditività e la quota sale al 90% tra le imprese al massimo della maturità nella loro adozione dell’AI. Il 65% (che diventa il 92% tra le aziende avanguardia) sostiene che i staff lavorano in modo più efficace, il 67% (90%) segnala un miglioramento della Buyer expertise e il 64% (91%) indica di avere maggiore capacità di fare innovazione.
I dati emergono dall’AI Readiness Index di Cisco [in inglese] (uno studio basato sulle interviste a 8.039 senior enterprise chief responsabili dell’AI in aziende con almeno 500 dipendenti e in 30 mercati mondiali, tra cui l’Italia). Il sondaggio svela molto anche sul nostro Paese: per esempio, da noi le aziende già mature per l’AI (Cisco le chiama “Pacesetter”) sono il 10% (a livello globale il 13%). La probabilità che le aziende italiane AI-ready trasformino i progetti pilota AI in progetti operativi è 5 volte più alta; inoltre, le imprese all’avanguardia hanno il 60% di probabilità in più di ricavare dall’AI un valore misurabile.
Ma come si diventa “Pacesetter” dell’AI? I CIO italiani non hanno dubbi: bisogna andare verso il modello di intelligenza artificiale e i casi d’uso che servono al enterprise, non solo all’IT, perché è così che si crea valore per l’intera azienda.
“Tecnologia migliore e pragmatismo” è, infatti, la ricetta di Marco Cozzi, Head of Innovation & ICT di Banca Finanziaria Internazionale e presidente di Digital Safety Competition.
“Il pragmatismo si traduce in scelte concrete che ogni supervisor può fare già adesso”, dichiara Cozzi: “definire pochi processi chiave da innovare radicalmente, stabilire regole chiare sulle responsabilità e sull’uso dell’AI e investire in formazione e competenze in modo continuativo”.
“È fondamentale scegliere la tecnologia che serve all’azienda” anche per Mariangela Colasanti, Head of Innovationdi BWH Lodges.
“Questo è un principio che vale sempre per l’IT, ma ancor di più deve valere per l’intelligenza artificiale”, afferma la supervisor. “L’AI è disruptive, è veloce, offre molte più applicazioni a costo relativamente basso e con un attain altissimo: i consumatori la stanno già usando e spesso la sperimentano ancora prima delle stesse imprese”.
Guida all’adozione di successo dell’AI: individuare i casi d’uso concreti
Nonostante l’enorme valore commerciale potenziale dell’intelligenza artificiale, questo non si materializzerà spontaneamente, ha ammonito Haritha Khandabattu, senior director analyst di Gartner. “Il successo dipenderà da progetti pilota strettamente allineati con il enterprise, da un benchmarking proattivo delle infrastrutture e dal coordinamento tra i staff di intelligenza artificiale e quelli aziendali per creare un valore aziendale tangibile”, secondo l’analista.
Infatti, Colasanti puntualizza: “L’AI non è una promessa che delude i CIO, ma bisogna trovare, tra le migliaia di applicazioni possibili, quelle di uso reale, quelle che fanno la differenza, creando una roadmap attuabile dal punto di vista sia tecnologico che degli investimenti”.
Gli investimenti sono uno dei grandi crucci dei CIO: si può progettare la migliore implementazione AI possibile per l’azienda, ma il progetto deve comunque essere finanziato; altrimenti, come minimo, viene messo in attesa.
“Noi di BWH Lodges lavoriamo sull’AI come Machine Studying da anni. Sulla GenAI e sugli Agenti AI abbiamo avviato di recente dei progetti sia al nostro interno che per gli albergatori, ma procediamo caso per caso: le necessità e le opportunità di trarre vantaggio non sono uguali in tutte le strutture”, spiega Colasanti. Che evidenzia, però: l’architettura tecnologica della sua azienda è già AI-ready e questo rende più facile scalare.
“La base sono i dati puliti e utilizzabili”, sottolinea la supervisor. “Questo è il pre-requisito su cui stiamo lavorando con dedizione. Abbiamo adottato Knowledge Cloud di Salesforce, che è come un cloud privato in cui mettiamo i dati. Bisogna curare i dataset in modo continuativo per fornire dati sempre aggiornati agli albergatori e creare servizi”.
Raggiungere la maturità nella gestione dei dati
La mancata centralizzazione dei dati è proprio una delle grandi barriere all’adozione dell’intelligenza artificiale.
Questo vale anche nell’adozione della GenAI, come ha sottolineato lo studio di Capgemini Analysis Institute intitolato “Knowledge foundations for presidency – From AI ambition to execution [in inglese]”. Il report analizza il settore pubblico, ma il monito sul necessario miglioramento nella gestione dei dati vale anche per le aziende non-public. Dall’analisi emerge che solo il 12% delle PA globali si ritiene particolarmente maturo nell’utilizzo dei dati e solo il 21% possiede i dati necessari per addestrare e perfezionare i modelli di AI, compresi quelli generativi.
“I dati sono e stanno dimostrando sempre di più di essere il nuovo oro del mondo digitale”, sottolinea Sonia Belli, IT Director di QubicaAMF Worldwide (bowling merchandise). “Ma esistono due sfide legate ai dati: la sicurezza e la privateness. La cybersicurezza e la compliance sono il centro dell’attenzione per i CIO, ma AI e dati vengono subito dopo e i quattro temi sono tutti collegati”.
L’AI, infatti, non può prescindere dalla information governance e avere una piattaforma per i dati è indispensabile per fare AI, ribadisce Belli.
“Il rischio è che l’intelligenza artificiale acceda a dei dati che non deve leggere. Anche per questo i CIO stanno facendo tanti PoC sull’AI, ma solo il 5% arriva in produzione”, osserva la supervisor.
Anche Gartner sottolinea che essere AI-ready vuol dire che i dati dell’azienda sono idonei all’uso per specifici casi d’uso di AI, ovvero ottimizzati per le applicazioni di intelligenza artificiale. E questo impone nuovi approcci al information administration.
“Le imprese che investono nell’AI su larga scala devono far evolvere le proprie pratiche e capacità di gestione dei dati per estenderle alle nuove applicazioni”, si legge nell’analisi [in inglese] della società di ricerche.
Puntare sulle competenze e fare alfabetizzazione AI
Un altro dato rilevante del citato studio di Cisco è che appena il 7% delle imprese globali dichiara un’elevata maturità nella formazione di competenze legate a dati e AI.
Il tema della Knowledge and AI Literacy è cruciale anche nelle aziende italiane. Se le grandi si sono portate più avanti (anche grazie alle prescrizioni dell’AI Act), le PMI (la grande maggioranza del nostro tessuto imprenditoriale) “fanno AI Literacy più nella parte tecnica e applicativa che attraverso tutta l’organizzazione”, indica Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio PMI del Politecnico di Milano. “Non c’è, per ora, una distribuzione di conoscenza sull’intero organico dell’impresa; piuttosto, la formazione avviene in base all’esigenza e per le persone che usano quella tecnologia. Ma è già un’evoluzione rispetto al semplice coaching”.
Quanto ai CIO, di solito hanno il loro bagaglio di conoscenze sull’AI basato sull’auto-addestramento. Osserva ancora Rorato: “I CIO si informano molto e sperimentano internamente con il loro personale. Inoltre, partecipano ai convegni e si interfacciano con i fornitori, che diventano un importante alleato sulla formazione”.
“La vera sfida dell’innovazione sono le competenze”, concorda Marco Cozzi. “L’intelligenza artificiale è una nuova energia potentissima, ma senza una diffusa alfabetizzazione digitale e nuovi ruoli (come i responsabili dei rischi dei modelli), la potenza non si trasforma in valore. Non vince chi sperimenta di più, ma chi ha le persone giuste per governare un sistema di decisioni affidabile. Proteggere i dati, garantire la trasparenza e mantenere il controllo umano è buon governo dell’AI”.
Progettare i processi in modo digital-native
Cozzi sottolinea che nell’adozione dell’AI un errore comune nelle imprese è “innestare” l’intelligenza artificiale su process operative datate. Questo approccio, infatti, “fallisce sulla scala. Il salto di qualità arriva solo quando i processi vengono progettati in modo nativo digitale, ovvero con decisioni spezzate in micro-step tracciabili, trasparenza e intervento umano limitato ai soli passaggi che modificano il profilo di rischio”, precisa il supervisor.
Un processo nativamente digitale non richiede più l’approvazione finale di un supervisor: è guidato da molte micro-decisioni automatiche basate sui dati, mentre l’intervento umano resta riservato ai passaggi a maggior impatto sul rischio.
“Oggi molte imprese tendono a prendere i workflow e portarli tali e quali nell’AI”, prosegue il supervisor. Va bene, ma “questo vuol dire fare automazione, non entrare nell’period dell’intelligenza artificiale. Nell’AI bisogna partire dalle esigenze, non dal foglio bianco puro, e ridisegnare il processo e questo va fatto proprio sui processi legati al enterprise, perché è lì che si guadagna competitività”.
Anche le infrastrutture tecnologiche vanno cambiate, ovvero riprogettate per garantire all’impresa piena governance sui suoi dati. Non si deve rinunciare al cloud, secondo Cozzi, ma bisogna usarlo in modo story che, se necessario, si possano riportare i dati e i workflow in home e continuare a operare.
“Oggi le tensioni internazionali non permettono più di affidare il controllo advert altri”, evidenzia il supervisor. “Possono intervenire motivi politici o tecnici, come il blocco dei information heart esterni. Per questo occorre scegliere piattaforme interoperabili e multi-cloud e considerare anche il codice aperto, evitando quel lock-in che il mercato dei fornitori tecnologici sta costruendo. Noi CIO dobbiamo evitare accuratamente di rendere le nostre aziende dipendenti da fattori esterni che compromettono la protezione dei dati, la continuità di enterprise e anche il funds. Dobbiamo mettere in competizione i vendor, averne diversi e poterli sostituire. Insomma, dobbiamo essere sovrani, per dirla con un termine che oggi ricorre sempre più di frequente”.
Parlare di rischio, chiarisce ancora Cozzi, non vuol dire rallentare le proprie operazioni, ma correre in sicurezza. Cozzi suggerisce con le tecnologie AI di catalogare i possibili problemi (come i bias algoritmici, il information drift e la vulnerabilità dei dati) e pianificare scenari di emergenza (il catastrophe restoration dei modelli), perché ciò consente all’azienda di muoversi velocemente ma con un controllo saldo.
Costruire la fiducia e arginare lo shadow AI
Tra le innovazioni che Gartner prevede raggiungeranno l’adozione diffusa entro i prossimi cinque anni, l’intelligenza artificiale multimodale e la gestione della fiducia, del rischio e della sicurezza (belief, danger and safety administration, Trism) sono quelle “dominanti”. Lo sviluppo di questi approcci (che devono lavorare insieme) consentirà, secondo la società di ricerche, applicazioni di intelligenza artificiale più solide, modern e responsabili.
“L’AI porta con sé nuove sfide di gestione della fiducia, del rischio e della sicurezza che i controlli convenzionali non affrontano”, dichiara Khandabattu. “Le aziende devono valutare e implementare l’AI Trism su più livelli per supportare e applicare costantemente le coverage in tutte le entità di intelligenza artificiale in uso”.
Questa esigenza di costruire sicurezza e fiducia si scontra, però, con due grandi ostacoli, sottolineano molti CIO: l’uso incondizionato degli strumenti GenAI, “che non è detto che siano utili o affidabili”, e lo Shadow AI, ovvero l’uso da parte dei dipendenti di strumenti AI non governati dall’IT aziendale. Il CIO, invece, vuole tenere ogni tecnologia sotto controllo e vuole che i prodotti usati in azienda siano testati e stabili.
“Nessuno può affermare di non avere Shadow AI in azienda”, osserva Cozzi. “Al contrario, è ormai onnipresente: l’intelligenza è integrata in ogni dispositivo. Per questo il fenomeno non si risolve con i divieti, ma costruendo consapevolezza nelle persone sull’uso, i limiti e i rischi dell’AI. Le coverage aiutano, ma solo fino a un certo punto. Le tecnologie non si possono evitare – sono abilitanti – ma si deve imparare a usarle in modo corretto. Come Presidente del Digital Safety Competition, sto portando avanti iniziative di sensibilizzazione proprio con questo obiettivo: non vietare l’AI, ma guidare le persone a riflettere su come la utilizzano e a capire quando stanno esponendo i dati aziendali. Spesso non ci si rende conto che usare un’intelligenza artificiale significa, di fatto, consegnare i propri dati al mondo.”
La management del CIO è insostituibile
C’è un altro ingrediente fondamentale che i CIO includono nella loro ricetta per il successo dell’AI: rendere l’IT un companion strategico del enterprise. L’AI non è solo una tecnologia, ma uno strumento di cambiamento che investe l’azienda nella sua totalità, per cui solo un CIO con un impatto sull’intera organizzazione può garantire il successo dei progetti di intelligenza artificiale.
Soprattutto, la guida del CIO resta insostituibile: secondo il report “AI Brokers Are Right here, however Don’t Name Them Boss [in inglese]” di Workday (la piattaforma enterprise AI per la gestione finanziaria, di persone e agenti), il 75% dei professionisti a livello globale si sente a proprio agio nel collaborare con gli agenti AI, ma solo il 30% accetterebbe di essere gestito da uno di essi.
In Italia, la fiducia nella collaborazione tra persone e intelligenza artificiale è in linea con la media internazionale (75%), ma la disponibilità advert accettare una management algoritmica si ferma al 25%. La fiducia, da un lato, è un problema e va costruita con un’AI controllata e responsabile; dall’altro, è un sentimento tipicamente umano che le persone sono poco disposte advert affidare alle macchine, confermando che l’AI può anche essere un copilota, ma che al posto di comandante ci devono essere un CIO e un staff manageriale in carne e ossa.